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GAZA: 2a NOTTE DI TREGUA

2009-01-19

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2009-01-19

berlusconi: "azione necessaria, Hamas ha usato i civili come scudi umani"

Seconda notte di calma nella Striscia

L'esercito israeliano prosegue il ritiro "progressivo" dopo la proclamazione unilaterale di cessate il fuoco

GAZA - Seconda notte di calma nella Striscia di Gaza dopo il cessate il fuoco proclamato unilateralmente da Israele e accettato in seguito da Hamas. L’esercito israeliano ha cominciato un ritiro "progressivo" dal territorio palestinese, devastato dopo 22 giorni di pesante offensiva. Nessun combattimento o bombardamento da due giorni a questa parte e nella Striscia regna la calma, ma si fanno i conti con il tragico bilancio del conflitto: oltre 1.300 palestinesi hanno perso la vita in tre settimane.

NUOVI INCONTRI AL CAIRO - E dopo il vertice per la pace che si è tenuto domenica sera a Sharm el Sheikh, l'Egitto, che tenta di imporre il suo piano per una tregua duratura nella Striscia di Gaza, ha invitato i delegati israeliani e palestinesi a presentarsi giovedì al Cairo per incontri separati con i mediatori egiziani. Lo ha annunciato una fonte diplomatica all'agenzia Mena. I nuovi incontri avrebbero per scopo di "prendere le disposizioni necessarie al fine di consolidare il cessate il fuoco e continuare gli sforzi per realizzare le altre fasi del piano, in particolare la fine del blocco a Gaza".

BERLUSCONI: "AZIONE NECESSARIA" - Silvio Berlusconi, che ha partecipato al vertice a Sharm el Sheikh, ha poi raggiunto Gerusalemme per un incontro con il primo ministro israeliano Ehud Olmert. Durante il colloquio, ha detto il premier, è emersa la disponibilità di Israele a ritirarsi dalla Striscia a patto che "non ci siano più lanci di razzi" sul territorio israeliano. Berlusconi, che ha definito l'offensiva di Tel Aviv "necessaria", ha osservato come "nessuna democrazia al mondo possa sopportare che questo continui" e ha esortato "gli Stati liberi a dare voce anche alle ragioni del popolo israeliano dal momento che Hamas ha utilizzato la popolazione civile come scudi umani". Domenica il premier aveva annunciato la disponibilità dell'Italia a inviare reparti di carabinieri per presidiare i valichi di Gaza nel quadro di un intervento multinazionale di interposizione.

19 gennaio 2009

 

 

 

 

 

Reportage / Da Barak a Barghouti, passando per l'esercito come "embedded"

Tsahal e il "riservista" Asaf

Perché Gaza non è Sarajevo

Osservo i giovani e il volto delle ragazze al check point per Gerusalemme: eccoli qua gli interlocutori di Israele

di BERNARD-HENRI LÉVI

 

 

Henri Lévy a una manifestazione anti-israeliana (foto Alexis Duclos)

Henri Lévy a una manifestazione anti-israeliana (foto Alexis Duclos)

Yuval Diskin è il capo dello Shin Bet, il mitico e temibile Servizio di sicurezza interna dello Stato di Israele. Per quanto ne sappia, non ha mai parlato. Comunque, non dopo l'inizio di questa guerra. Ha una quarantina d'anni. È alto. Massiccio. Un aspetto da militare, smentito dal suo abbigliamento: jeans, scarpe da ginnastica e maglietta. Mi riceve, all'alba, nel suo ufficio a nord di Tel Aviv che, con le sue feritoie orizzontali, assomiglia a una casamatta. "Tutto questo per Sderot? — comincio io —. Questo diluvio di fuoco, e le vittime, per fermare i Qassam su Sderot, sulle altre città e sui kibbutz del Sud del Paese?". "Sì, certo — mi risponde irritato —. Nessuno Stato al mondo tollererebbe di veder cadere così, tutti i giorni, le granate sulla testa dei propri cittadini". Poi, visto che gli rispondo di saperlo e gli dico che, per una questione di principio e di solidarietà, vado a Sderot ogni volta che arrivo in Israele, e aggiungo che forse, negoziando, si poteva evitare di giungere a questo punto, egli s'interrompe, alza le spalle e, con il tono di chi decide, visto che gli altri ci tengono, d'entrare nei dettagli, riprende.

"Bisogna che lei capisca, in questo caso, chi sono quelli di Hamas. Noi li conosciamo meglio di chiunque. Talvolta, ho l'impressione di esser capace di seguire in tempo reale anche le loro minime decisioni, talvolta di precederle. Ebbene, siamo consapevoli di tre cose". Gli portano una tazza di caffè che beve in un sorso. "Intanto, la loro strategia, che è quella dei Fratelli musulmani di cui sono l'emanazione e che mira a prendere il potere, sulla lunga durata, in Libano, in Giordania, in Israele...". Faccio un cenno per dire che so. "Bene. In seguito, l'alleanza con l'Iran, che può sembrare contro natura tanto è pesante il contenzioso fra sunniti e sciiti, ma di cui conosciamo tutta la storia". La data: 1993. Lo scenario: un consiglio di ulema siriani, sauditi, cisgiordani, cittadini di Gaza. L'ispiratore: l'egiziano El Kardaoui, importatore in terra sunnita della strategia sciita degli attentati suicidi. "Infine, l'essenziale: la rete di trecento tunnel, scavati sotto la frontiera egiziana col tacito accordo di Mubarak il quale, ogni volta che ne parlavamo, giurava che se ne sarebbe occupato, ma purtroppo non faceva nulla, tanto era il timore di contrariare i suoi Fratelli musulmani". Come i pacifisti israeliani, si può pensare che la distruzione di quei tunnel sarebbe bastata. Si può ritenere — è il mio caso — che, avendo questa guerra già avuto come effetto di far scoprire al mondo intero l'esistenza dei tunnel e di aver messo quindi gli egiziani con le spalle al muro, Israele potrebbe fermarsi e decidere fin da oggi, 11 gennaio, un cessate il fuoco. Quel che non si può ignorare è il contesto: Gaza che, evacuata, non diviene l'embrione dello Stato palestinese tanto desiderato, ma la base avanzata di una guerra totale contro lo Stato ebraico.

Henri Lévy "embedded" nella Striscia

Henri Lévy "embedded" nella Striscia

Mi trovo a Baka-el-Garbil, vicino a Um-el-Fahem: è una delle città di arabi israeliani che nel 1948 hanno scelto di restare a casa loro e costituiscono, sessant'anni dopo, il 20 per cento della popolazione del Paese. Questo pomeriggio, la città è scesa in piazza: 15.000 persone protestano contro il "genocidio" di Gaza. Ci sono militanti, che indossano la kefiah a scacchi del Fatah. Altri, che sventolano la bandiera verde di Hamas. Vedo anche, all'inizio del corteo, giovani incappucciati che urlano — ricordo che siamo nel centro di Israele — facendo appello all'Intifada, alla Jihad, al martirio. "Questo Israele che voi rigettate non è il vostro Israele? — chiedo a uno di loro —. Non è lo Stato di cui siete cittadini allo stesso modo e con gli stessi diritti degli altri suoi cittadini?". Il ragazzo mi squadra come fossi un pazzo. Mi risponde che Israele è uno Stato razzista che lo tratta come una sottospecie, gli vieta di frequentare università e night- club e, di conseguenza, non si deve aspettare da parte sua che gli sia fedele. Raggiunge quindi i suoi compagni, abbandonandomi alle mie perplessità: bella solidità di una democrazia che, in tempo di guerra, si accontenta che un cittadino su cinque sia sull'orlo della secessione politica; e vertiginosa fragilità di un legame sociale di cui vediamo bene come potrebbe, dall'interno, sciogliersi. Altro contesto? No. Ma situazione di Israele.

"Nulla giustifica la morte di un ragazzino — mi ha detto Asaf, 33 anni, proprietario di un ristorante a New York e, nei periodi da riservista, pilota di elicotteri Cobra —. Nulla. Per questo, quando il rischio esiste, quando in cabina di pilotaggio mi accorgo che, prendendo di mira un obbiettivo militare, potrei colpire anche dei civili, lascio perdere e torno alla base". Ho sfidato Asaf a darmi la prova di quanto dice. È così che mi trovo nel Negev, sulla base di Palmachim, il sancta sanctorum della tecnologia israeliana dove in particolare sono stati sperimentati i famosi missili anti- missili Arrow. A bordo, videocassette di Asaf. Registrazione del suo dialogo, il 3 gennaio, con un interlocutore a terra durante il quale l'informa che ha deciso di interrompere la missione perché il "terrorista" in linea di mira è stato raggiunto da un bambino. E filmati incredibili — ne ho visti quattro — di missili già lanciati che il pilota, vedendo apparire un civile sul suo schermo o una jeep presa a bersaglio entrare nel garage di un edificio di cui non sono stati avvertiti, come è d'uso, gli occupanti, fa dirottare in piena corsa e esplodere in un campo. Che non tutti abbiano gli stessi scrupoli, lo immagino (infatti, come spiegare altrimenti i troppo numerosi e inaccettabili bagni di sangue?). Ma che in Tsahal esistano persone come Asaf, che le procedure comandino di agire piuttosto come Asaf, insomma che Asaf non sia l'eccezione ma la regola, è importante dirlo (e pazienza per il cliché che vuole ridurre Tsahal a un'accozzaglia di bruti che si accaniscono su donne e vegliardi).

Ehud Barak è a casa sua. L'avevo visto ieri a Palmachim, circondato dai suoi generali. Lo ritrovo oggi, in un salone lungo lungo, che sembra costruito attorno ai due pianoforti che egli suona da virtuoso. Anche lui evoca il dilemma morale a cui il suo esercito è confrontato. Descrive il calcolo di Hamas che, proprio perché sa come funzionano gli israeliani, installa i suoi depositi di armi nel cortile di una scuola, nella sala di un ospedale, in una moschea. "Delle due l'una — mi spiega con un tono in cui si scorge, ci giurerei, una curiosità da stratega di fronte a una tattica inedita —. O ne siamo informati e non spariamo, e loro hanno vinto. Oppure l'ignoriamo e spariamo, e loro filmano le vittime, inviano le immagini alle televisioni e hanno ugualmente vinto". Mi accingo a chiedergli come l'uomo di Camp David, la Colomba che offrì ad Arafat, nove anni fa, le chiavi di uno Stato palestinese che questi non volle, viva personalmente questo dilemma. E sto per fargli osservare che Israele non sarebbe a questo punto senza la serie di occasioni mancate, di passi falsi, di cecità dei governi che seguirono. Ma suona il telefono. È Condoleezza Rice che chiama per spingerlo, appunto, a concludere al più presto un cessate il fuoco. Perché al più presto, secondo lei? Il ministro-pianista sorride. Perché, per una questione di pochi giorni, lo stesso cessate il fuoco sarà opera sua, di Condy, o dell'altro Barack (Obama) che le ruberà la sua eredità.

Amos Oz è prostrato. Il grande scrittore, coscienza del Paese e, in particolare, del campo della Pace, autore di Aidez-nous à divorcer. Israël Palestine: deux Etats maintenant (Editions Gallimard 2004) che ritrovo a Gerusalemme dal nostro amico comune Shimon Peres, ricorda come Tsahal dovette trattare, sette anni fa, la vicenda del "genocidio di Jenin" (66 morti, di cui 23 israeliani). Poi, quando ci fu la guerra in Libano, il dramma di Cana (remake, secondo alcuni, dell'assalto al ghetto di Varsavia). Parliamo anche delle armi terrificanti che utilizzerebbe Tsahal (il cui effetto sarebbe di "assorbire" l'ossigeno attorno al punto di impatto). La voce che circola quel giorno, la storia di una casa, nella zona di Zeitun, dove sarebbero state attirate cento persone prima che si sparasse nel mucchio, gli sembra tuttavia così insensata che non sa come interpretarla, né come abbia preso forma. Pare che tutto sia cominciato con una vaga testimonianza raccolta da una Ong (Organizzazione non governativa). Poi ci si son messi i giornalisti: "Che si lasci entrare la stampa! Come possiamo smentire i "si dice" se non siamo presenti? ". Dopodiché, è il villaggio mediatico planetario ad agitarsi: "Tsahal avrebbe... Tsahal potrebbe... Il dottor X conferma che Tsahal sarebbe all'origine di...". Questi condizionali sottili e per modo di dire prudenti sono un vero veleno. Fra due giorni non si parlerà più delle dicerie di Zeitun. Ma quali saranno le conclusioni della gente? Che era una voce assurda? O che un orrore scaccia l'altro e che Tsahal, nel frattempo, avrebbe superato un altro gradino sulla scala dell'abominio e del crimine? Amos Oz, il Camus di Israele. La disinformazione, o il mito ebraico di Sisifo.

Un'altra voce, di cui io stesso ho potuto verificare l'infondatezza, è quella del "blocco umanitario". Sorvolo sul caso dell'Ospedale Shiba di Tel Aviv, il cui vice- direttore, Raphi Walden mi spiega che il 70 per cento dei pazienti sono palestinesi. Sorvolo sulla vicenda delle ambulanze colpite per sbaglio da Tsahal, ma deliberatamente bloccate dal ministero della Salute di Hamas, che prende in ostaggio i suoi civili e soprattutto non vuole che siano curati all'ospedale Soroka di Beer Sheva. L'informazione decisiva la ricevo il 14 gennaio, al terminal di Keren Shalom, estremo sud della striscia di Gaza, dove un centinaio di camion passano, come ogni mattina, sotto gli occhi vigili dei rappresentanti delle Ong. Farina, medicinali, alimenti per neonati, coperte. Nulla, nessuno e soprattutto non gli abituali soccorsi umanitari potranno attenuare, qui come altrove, le sofferenze delle famiglie che hanno perso uno dei loro cari. Ma i fatti sono i fatti. E il fatto è che più di 20.000 tonnellate sono entrate, dall'inizio dell'operazione, sotto le insegne dell'Unicef o del World Food Program. Come mi dice il colonnello Jehuda Weintraub il quale, in un'altra vita, scrisse una tesi su Chrétien de Troyes e che, a sessant'anni, si impegna nel "coordinamento " degli aiuti: "La guerra è sempre orribile, criminale, piena di furore; perché aggiungere, alla sua atrocità, la menzogna?".

A Parigi, si alzano i toni. Jean-Marie Le Pen dichiara che Gaza è un campo di concentramento. Altri, vicini alla sinistra radicale, gridano che da molto tempo non c'era stato un massacro di musulmani peggiore di quello degli abitanti di Gaza. E i 300.000 del Darfur? E i 200.000 bosniaci? E le decine di migliaia di ceceni che Putin andò a "snidare fin dentro i cessi" e che non vi strapparono neanche una lacrima? Diversamente da voi, desideroso di provare almeno ad andare a vedere, il 13 gennaio, scesa la notte, sono entrato nei sobborghi di Gaza City, nel quartiere Abasan Al-Jadida, un chilometro a nord di Khan Yunis, "embedded" nell'unità di élite Golani. So, per averlo evitato tutta la vita, che il punto di vista dell'"embedded" non è mai il buon punto di vista. E non pretenderò di aver capito in qualche ora lo spirito di questa guerra. Ma, detto questo, ecco la mia testimonianza. I combattenti di Varsavia non avevano, purtroppo, le mine anticarro come quella appena esplosa sotto le ruote di un veicolo passato venti minuti prima del nostro. I loro aggressori non conoscevano quella stanchezza, quel profondo disgusto per la guerra che esprimono il comandante Gidi Kfirel e i quattro riservisti che ci accompagnano. Infine, posso sbagliarmi, ma le poche, le pochissime cose che vedo (palazzoni immersi nell'oscurità ma in piedi, frutteti all'abbandono, la via Khalil al-Wazeer con i negozi chiusi) indicano una città frastornata, che si trova in trappola, terrorizzata, ma certamente non una città rasa al suolo, come poterono esserlo Grozny o certi quartieri di Sarajevo. Questo è ancora un fatto.

Ehud Olmert a Gerusalemme. Racconta, non senza comicità, il balletto dei mediatori troppo frettolosi. Torna a parlare del doppio gioco di un Mubarak che la comunità internazionale dovrà pur costringere a chiudere le sue frontiere ai beduini contrabbandieri. Ma ecco che Olmert cambia tono. E con una voce più bassa, quasi confidenziale, comincia a raccontarmi l'ultima visita di Abu Mazen, tre settimane fa, proprio in questo ufficio, dove ora mi trovo io. "Gli ho fatto un'offerta. 94,5 per cento della Cisgiordania. Più 4,5 per cento sotto forma di scambio di territori. Più un tunnel, sotto il suo controllo, che colleghi la Cisgiordania a Gaza e che equivale all'1 per cento mancante. Quanto a Gerusalemme, una soluzione logica e semplice: i quartieri arabi per lui; i quartieri ebraici per noi; e i Luoghi Santi sotto un'amministrazione congiunta saudita, giordana, israeliana, palestinese, americana. Abu Mazen m'ha chiesto di lasciargli il foglio su cui avevo disegnato lo schema. Non gliel'ho dato, perché lo conosco e so che, la prossima volta, l'avrebbe utilizzato come punto di partenza di un contro-negoziato. Comunque, l'offerta c'è... Aspetto...". È troppo bello per essere vero? Possibile che siamo passati, così di recente, tanto vicini alla pace?

Abu Mazen non è a Ramallah, capitale dei palestinesi moderati. E nemmeno Yasser Abed Rabbo, con il quale una volta sostenemmo il piano di pace di Ginevra e che, anche lui, si trova al Cairo. Al loro posto, in un edificio del centro, incontro Mustafa Barghuti, presidente della Palestinian Relief Society, e Mamdouh Aker, medico, autorità morale e veterano del dialogo israelo-palestinese. Né l'uno né l'altro credono alla serietà di un'offerta di pace proposta da un primo ministro che sta per lasciare il proprio posto. Entrambi parlano severamente di Abu Mazen, colpevole di instaurare uno "Stato poliziesco". Soprattutto, mi rendo conto di come stiano attenti a non dire nulla che sembri attaccare Hamas che, come sanno, ha la solidarietà della piazza palestinese. Eppure, riflettendo bene, ascoltando il primo parlarmi con nostalgia del "piano saudita " di coesistenza dei due Stati, osservando il secondo animarsi solo nell'evocare la sua "Lettera a Yitzhak Rabin", pubblicata nel 1988 dal Jerusalem Post perché i giornali arabi l'avevano rifiutata, guardando infine, al ritorno, l'atteggiamento dei giovani e il volto scoperto delle ragazze che fanno la fila con me per entrare a Gerusalemme, al check-point di Kalandiya, mi sorprendo a crederci di nuovo. Ma certo, eccoli qua, gli interlocutori di Israele. Sono qui i partner della pace futura. Una pace malgrado tutto. Una pace al di là delle devastazioni e delle lacrime. Una pace ragionata, senza effusioni né entusiasmi, ma forse, per questo, più che mai a portata di mano. Due popoli, due Stati. Una pace, e nulla di più.

Bernard-Henri Lévy

(traduzione di Daniela Maggioni)

19 gennaio 2009

 

 

 

 

 

REPORTAGE / in fitto dedalo di tunnel sono nascosti i depositi di munizioni

Sulla strada della devastazione

Da Nord a Sud attraverso la Striscia. I superstiti: dove sono le case? La guerra non risparmia neanche i cimiteri

BET LAHIYA (Gaza settentrionale) - La collinetta del quartiere di Atatrah domina un largo tratto del confine israeliano. Sta a una quarantina di metri sopra il livello del mare, è descritta come il luogo più alto della regione. Siamo nell'estremo nord della Striscia di Gaza. Le ciminiere della centrale elettrica israeliana di Ashkelon sono a un tiro di schioppo. Ecco i palazzi di Sderot. Si distinguono bene i frutteti dei kibbutzim Yad Mordechai e Nativ Hasarah. E' da qui che i gruppi scelti di Hamas sparano gran parte dei loro missili. Qui, anche a detta dei giornalisti palestinesi locali, corre un fitto dedalo di tunnel, sono nascosti i depositi di munizioni, sono scavati i bunker primitivi della guerra asimmetrica con "il nemico sionista". Ed è qui che negli ultimi giorni si è scatenata la violenza più intensa dei bombardamenti e dei tank.

Ci siamo arrivati ieri in tarda mattinata da Khan Yunis, otto ore dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco israeliano. Sulla strada costiera, appena prima di Gaza City, le distruzioni sono vaste, impressionanti. Le pattuglie israeliane avevano tagliato in due la Striscia 15 giorni fa e praticamente tutte le abitazioni prospicienti le loro postazioni temporanee sono state danneggiate. Quelle vicino al mare, alcune villone costruite dopo i primi anni '90, sono rase al suolo. Ma anche queste devastazioni sono nulla rispetto a ciò che si incontra più a nord, sulle alture di Atatrah e tutto attorno nel villaggio di Bet Lahiya. Qui la furia delle bombe è stata massiccia, continua, martellante, mirata a radere al suolo, punire, prevenire, spaventare. Gli abitanti vi stanno ritornando lentamente per visionare i danni, ma con il buio scappano via e resta il deserto, hanno paura di nuovi attacchi. E' una scena che ricorda immediatamente le distruzioni dei villaggi libanesi di Bint Jebel o Qana durante il conflitto dell'estate 2006. Là però i danni erano distribuiti in una regione molto vasta a Sud del fiume Litani.

Qui oggi sono concentrati in settori ridotti. I carri armati e le ruspe hanno sconvolto ciò che non era stato toccato dalle bombe. Il piccolo cimitero locale è percorso dal solco profondo dei cingoli di carri armati, che hanno distrutto le pietre tombali, rovesciato il terreno come si trattasse di un'aratura per giganti. Sui bordi delle vie asinelli morti, vestiti e rottami di mobili mischiati alle macerie, galline che becchettano tra i resti di cibo, odore di immondizie marce. Eppoi serre abbattute, cavi elettrici ovunque, carcasse di auto schiacciate dai tank, giochi di bambini impolverati. I medici della Mezza Luna Rossa, suffragati dagli operatori palestinesi dell'Onu, sostengono di aver trovato ieri ben 95 cadaveri da queste parti, sotto le macerie. Ma sono cifre ancora tutte da verificare. Come lo sono del resto i bilanci complessivi dei morti palestinesi dal 27 dicembre, che a seconda delle fonti oscillano tra 1.200 e oltre 1.300. La lunga storia del conflitto israelo-palestinese insegna a diffidare dei numeri delle vittime forniti a caldo.

Un contadino, Abed Salah Attar, 37 anni, si lamenta che i soldati gli hanno rubato tutti i risparmi. "Quando ci hanno ordinato di evacuare, prima dell'attacco di terra, non ho fatto a tempo a prenderli da dentro il materasso. Mi hanno lasciato una nota scritta in ebraico con toni ironici dicendo che li avevo nascosti bene", dice tra le lacrime. Anche il cugino sessantenne, Khalil Yussef Attar, protesta di essere stato derubato di migliaia di dollari dalle truppe israeliane. E aggiunge: "Mia mamma 85enne è stata uccisa. Era inferma, non voleva evacuare quando sono arrivati gli ordini israeliani e poi con le prime bombe è rimasta intrappolata". I suoi campi di fragole e gli alberi di limoni sono distrutti. Dallo scheletro annerito della scuola di quartiere perforato dalle bombe si alza ancora il fumo nero di un incendio. Poco lontano alcuni attivisti di Hamas stanno disseppellendo i cadaveri di tre combattenti rimasti schiacciati dai carri armati nel loro bunker e poi coperti di macerie. La zona è stata transennata. Nessuno è armato, non ci sono uniformi, gli attivisti si parlano con il walkie-talkie, girano su motociclette cinesi (come gli uomini di Hezbollah in Libano) e guardano nervosi l'aereo senza pilota che pattuglia di continuo il cielo. Ma ci allontanano subito. Non vogliono che giornalisti stranieri vedano la scena.

Lorenzo Cremonesi

19 gennaio 2009

 

 

REPUBBLICA

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2009-01-19

L'annuncio del premier israeliano dopo che Hamas ha detto sì alla tregua

"a patto che le truppe lascino la Striscia entro 7 giorni". Blindati verso i confini

Gaza, inizia il ritiro dell'esercito di Israele

Olmert: "Andremo via il prima possibile"

A Sharm El Sheikh il vertice con i leader europei e Abu Mazen. E Haniyeh canta vittoria sullo Stato ebraico

Gaza, inizia il ritiro dell'esercito di Israele Olmert: "Andremo via il prima possibile"

I carri armati si spostano verso i confini della Striscia di Gaza

TEL AVIV - L'esercito israeliano ha cominciato a ritirarsi dalla Striscia di Gaza. E' un "ritiro graduale", come lo definisce un portavoce dell'esercito, ma segna l'inizio di una tregua, seppur fragile, dopo ventidue giorni di sanguinosi combattimenti. Una prospettiva rafforzata dalle parole del premier israeliano Olmert, che in serata ha assicurato che Israele vuole lasciare Gaza "il prima possibile" anche se, ha aggiunto, solo se il cessate il fuoco è stabile. Ieri Olmert aveva annunciato un cessate il fuoco unilaterale e stamattina Hamas e gli altri gruppi armati palestinesi hanno aperto alla tregua, "a patto che Israele lasci l'enclave costiera entro una settimana". In serata il leader di Hamas a Gaza Ismail Haniyeh ha parlato di vittoria contro lo stato ebraico, definendo l'operazione israeliana nella Striscia di Gaza un fallimento. Intanto oggi la diplomazia ha mosso altri passi: a Sharm El Sheikh, in Egitto, si è tenuto il vertice dei leader internazionali per discutere di come arrivare a una "pace duratura" e, nel frattempo, di come garantire gli aiuti umanitari ai disperati della Striscia.

Olmert: "Non intendiamo restare". In serata, parlando con i leader europei reduci dal summit in Egitto, il primo ministro israeliano ha affermato che "se il cessate il fuoco sarà stabile, Israele uscirà dalla Striscia di Gaza, che non ha mai avuto intenzione di riconquistare". Olmert, oltre ad esprimere il suo "rammarico per le vittime civili", ha detto che "il negoziato con i palestinesi è una priorità". Le condizioni ribadite dal premier - durante una conferenza stampa a Gerusalemme citata dal quotidiano Haaretz - sono "una tregua stabile e il sud di Israele al sicuro".

Haniyeh: "Un fallimento l'operazione israeliana". In una dichiarazione televisiva diffusa in serata il leader di Hamas a Gaza Ismail Haniyeh ha detto che il popolo palestinese ha riportato una "grande vittoria" contro Israele. "Allah ci ha concesso una grande vittoria, non per una fazione o un partito ma per tutto il popolo", ha dichiarato Haniyeh parlando per la prima volta da quando Israele ha proclamato ieri sera il cessate il fuoco unilaterale. "Abbiamo fermato l'aggressione (dell'armata israeliana) e il nemico non è riuscito a realizzare nessuno degli obiettivi", ha aggiunto.

Si muovono i tank. E' stata la televisione israeliana Canale 10 a mostrare per prima, nel tardo pomeriggio, le immagini dei soldati con la stella di David mentre rientravano in territorio ebraico. Colonne di mezzi blindati e unità di fanteria mentre si spostano, a riprova che il ritiro è iniziato. "Posso confermare che c'è un ritiro progressivo dell'esercito dalla Striscia di Gaza", ha dichiarato alla France Press un portavoce di Tsahal, l'esercito israeliano. Poco prima testimoni avevano riferito che soldati e carri armati stavano abbandonando alcune postazioni chiave: una nell'ex colonia di Netzarim, nel sud di Gaza, aprendo così per la prima volta dal 3 gennaio scorso la strada che collega il sud e il nord della Striscia, l'altra nel nord, ad Atatra. I testimoni hanno raccontato di aver visto i blindati riposizionarsi verso il confine con Israele, ma sempre all'interno del territorio palestinese.

L'apertura di Hamas. "Hamas e le altre fazioni hanno annunciato un cessate il fuoco a Gaza, a partire da subito, e danno a Israele una settimana di tempo per lasciare la zona". Con queste parole uno degli uomini del movimento islamico, Ayman Taha, ha dichiarato la disponibilità a fermare le armi. Il cessate il fuoco è stato poi confermato, sulla televisione siriana, dal numero due del movimento, Moussa Abu Marzouk, in esilio a Damasco. E Hamas ha chiesto allo Stato ebraico anche di aprire tutti i valichi verso la Striscia per consentire il passaggio degli aiuti alla popolazione stremata. Tre settimane di guerra, infatti, sono costate la vita a oltre 1.300 palestinesi, la metà dei quali civili. Anche oggi, secondo fonti del movimento islamico, almeno 95 cadaveri sono stati estratti dalle macerie di alcuni edifici crollati nei bombardamenti a Gaza City e nel nord della Striscia.

Situazione fragile. Nonostante la disponibilità unilaterale al cessate il fuoco sia da parte di Israele che di Hamas, gli ostacoli sul cammino di una tregua definitiva non mancano. Nel pomeriggio, poco dopo la dichiarazione dei miliziani, la polizia israeliana ha denunciato che tre razzi lanciati dalla Striscia hanno colpito l'area di Netivot e un altro un villaggio nel sud di Israele. Dall'alba di oggi più di venti razzi sono caduti sul territorio dello Stato ebraico. Tre le persone ferite, nessuna in modo grave, nell'esplosione di un razzo a Ashdod. E stamane, appena sei ore dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco deciso da Tel Aviv, elicotteri di Tsahal hanno attaccato un gruppo di edifici in un quartiere della città di Gaza. Prima c'era stata una sparatoria tra alcuni miliziani armati e i soldati israeliani nel nord, vicino al campo profughi di Jabalya.

Il vertice. Se i lanci di razzi di Hamas contro il territorio israeliano si fermano veramente, Israele non avrà alcuna utilità a rimanere nella Striscia di Gaza e dovrà ritirare i suoi soldati. E' il punto fermo scaturito dal vertice di oggi pomeriggio a Sharm El Sheikh, voluto dal presidente egiziano Hosni Mubarak. Un summit internazionale a cui hanno partecipato il presidente palestinese Abu Mazen, il segretario dell'Onu Ban Ki-moon, il re di Giordania Abdallah II, il segretario generale della Lega Araba, Amr Mussa, oltre ai capi di Stato e di governo europei, tra cui il premier Berlusconi che ha annunciato che l'Italia è pronta a mandare i carabinieri al valico di Rafah. L'obiettivo dell'incontro era di garantire i soccorsi umanitari e consolidare la fragilissima tregua cominciata quando il governo di Tel Aviv ha deciso un cessate il fuoco unilaterale. E oggi anche il papa, durante l'Angelus, ha lanciato un appello: "In Terra Santa c'è spazio per tutti. Si approfitti degli spiragli aperti per raggiungere la pace".

La mediazione egiziana. Nel pomeriggio Mubarak ha già annunciato, senza precisare alcuna data, che ci sarà un altro vertice per discutere della ricostruzione di Gaza e delle soluzioni per arrivare a una pace definitiva nell'area. Si conferma così ancora una volta il ruolo svolto dal Cairo - unico interlocutore, in questa fase, fra due parti che non dialogano - per costruire, indirettamente, una tregua condivisa. I partecipanti al summit di oggi hanno delineato una serie di passaggi: alcuni di breve termine, come il ritiro israeliano e l'afflusso di aiuti umanitari, altri di lungo respiro, come il pattugliamento internazionale dei confini (ritenuto essenziale da Israele per impedire il riarmo di Hamas) o il sostegno alla ricostruzione e allo sviluppo dei territori palestinesi. In serata il premier britannico Gordon Brown ha chiesto che lo Stato ebraico compia un passo ulteriore, aprendo i valichi della Striscia.

(18 gennaio 2009)

 

 

 

Gaza tra rabbia e distruzione

"Una catastrofe come Hiroshima"

dal nostro inviato GUIDO RAMPOLDI

Gaza tra rabbia e distruzione "Una catastrofe come Hiroshima"

Donne palestinesi

sedute sulle macerie

GAZA - "Hiroshima! Nagasaki". L'ira e lo sdegno di Refat abu Marzuk si sono solidificate nelle due parole che consegna con un tono energico e definitivo ai suoi vicini di casa, se il termine ha ancora un senso tra quelle rovine. Come alcune migliaia di palestinesi, ieri mattina, sul presto, Refat ha profittato del cessate-il-fuoco dichiarato da Israele per cercare tracce della sua proprietà nella distesa di detriti fino a ieri nota come al-Brazil, quartiere di Rafah. Delle sei file di palazzine a due o tre piani che procedevano per due chilometri lungo il confine con l'Egitto, quelle ancora in piedi sono davvero pochi, e nessuna di quelle poche è intatto. Difficile trovare in una guerra recente una distruzione tanto sistematica. E tanto pretestuosa.

"I tunnel? Ma quali tunnel?", sbotta Refat. "I pozzi dei tunnel sono più avanti". Non tutti: alcune tra le gallerie che passavano sotto la frontiera con l'Egitto cominciavano proprio nelle cantine di queste case. Ma per distruggere la rete dei tunnel sarebbe bastato bombardare i trecento metri successivi, quelli che dividono gli ultimi palazzi dal confine, e in particolare le serre, le cui plastiche opache spesso nascondono i pozzi. Invece l'aviazione israeliana ha deciso di sbriciolare la casa a decine di migliaia di abitanti di Rafah, quasi tutti ex profughi che aveva già perso tutto nelle precedenti guerre arabo-israeliane.

Adesso Refat abu Marzuk, nato sessantun anni fa a Ibna, oggi Israele, ha l'impressione che la storia si ripeta. Che una nuova nabka, una nuova "catastrofe" si stia per abbattere sui palestinesi: "Vogliono cacciarci anche da qua! Come nel 1948!. Come nel 1967! Buttarci fuori. E non permetterci di tornare indietro".

"Lo vede questo rudere?", mi fa un altro che ha perso la casa, Khaled abu Ghali, indicandomi una rovina che imprigiona l'albero su cui si è abbattuta. "Era un palazzo a tre piani, ci abitavano 82 persone. Non erano di Hamas, non avevano tunnel in cantina: avevano concluso che a loro non sarebbe accaduto nulla. Quando sono cominciati i bombardamenti non hanno avuto neppure il tempo di salvare gli ori delle donne. Sono scappati così com'erano". E lei cosa ha salvato? "I figli".

Neanche alla periferia di Gaza troverò un zona residenziale colpita dall'aviazione israeliana in un modo altrettanto ossessivo. Colpita con bombe gigantesche, grassi siluri lunghi due metri e mezzo, come l'ordigno su cui adesso vanno a cavalluccio alcuni ragazzi fidando sul fatto che gli artificieri di Hamas hanno svitato l'innesco dalla culotta. Pattinando nel fango trovo lamiere di tubi grigi, i razzi; voragini larghe 15 metri e profonde 5; una carcassa di pecora di cui spuntano dalla sabbia solo le zampe; l'ingresso di un tunnel, intatto sotto una sorta di capanna di plastica nera; sciami di bambini alla ricerca di schegge lunghe e affilate come spade.

E trovo Fatima Madi, nata 60 anni fa a Seba, oggi l'israeliana Beersheva, seduta su un blocco di cemento un tempo appartenuto alla sua casa. "Aveva due piani e ci abitavamo in dieci. Non ci rimane nulla. Neppure i vestiti. E mio genero è disoccupato, mio marito ha settant'anni. Cosa sarà di noi?". La casa successiva, una specie di fisarmonica che mima in piccolo le nostre villette a schiera, aveva un tunnel in cantina. Ma le bombe si sono limitate a strapparle via una facciata.

Perché l'immaginifica aviazione di Ehud Olmert ha raso al suolo buona parte della fascia di case a ridosso del confine? Ecco una domanda cruciale per tentare di capire se questo precarissimo cessate-il-fuoco sia l'inizio di un travaglio diplomatico che partorirà un gelido armistizio, o piuttosto la prosecuzione della guerra nella forma di una figura classica, l'Assedio. Una possibilità è che nelle intenzioni israeliane quel tappeto di rovine debba diventare una sorta di fascia di sicurezza, abbastanza larga per scoraggiare gli scavatori di tunnel. Ma questo non impedirebbe ad Hamas di aumentare la sua dotazione missilistica, poiché i razzi li fabbrica a Gaza, e tutto quel che le occorre può scavalcare facilmente qualsiasi frontiera.

L'altra possibilità è che Israele abbia inteso aumentare la pressione sul confine egiziano per obbligare il Cairo a prendersi sulle spalle Gaza: questo le permetterebbe di liberarsi tanto dell'ipotetico Stato palestinese quanto degli obblighi che le derivano dal gravoso ruolo di potenza occupante.

Proprio di fronte alle rovine di al-Brazil c'è il confine con l'Egitto, o più esattamente quel tratto di muro che gli abitanti di Rafah sfondarono tre volte, spinti dalla penuria di generi di prima necessità prodotto dall'embargo israeliano. Ma se Israele spera che un nuovo sfondamento costringa l'Egitto a farsi carico dei palestinesi, probabilmente ha sbagliato i calcoli. I ragazzi che trovo appollaiati sul tetto di una casamatta proprio sul confine, mi indicano il muro egiziano, a cento metri, parallelo al muro palestinese. "Non vede gli elmetti dei soldati egiziani? Se sfondiamo ci sparano".

Se di assedio si tratta, è stato preparato con cura. Nel deposito di alimentari dell'Unrwa, l'Agenzia Onu che da mezzo secolo assiste i profughi palestinesi, e ora anche gli sfollati che intasano Rafah, un funzionario mi racconta l'antefatto. Quarantacinque giorni prima dell'inizio della guerra, "Israele comincia a chiudere a singhiozzo il silos di Karni, cioè l'unico terminale di grano che c'è nella Striscia di Gaza. Di conseguenza si fermano anche i tre mulini della Striscia, e per sfamare i 350mila palestinesi che assistiamo, noi dell'Unrwa siamo costretti a dare fondo alle riserve immagazzinate. Poi l'offensiva israeliana. Ai 350mila palestinesi si aggiungono decine di migliaia di sfollati. Gli israeliani colpiscono il nostro maggior deposito di alimentari, una nostra scuola, due volte le nostre macchine. Un caso? Mah. In ogni caso Israele ha deciso di farci arrivare soltanto 260 tonnellate di farina per ogni carico ammesso nella Striscia, cioè molto meno di quanto occorre". Potreste acquistare grano e farlo macinare dai mulini? "Dei tre mulini, due sono stati distrutti dall'aviazione israeliana, chissà perché. Del terzo ignoro la sorte".

Il mulino maggiore era qua vicino, nel villaggio di Sofa. L'hanno fatto fuori i tank israeliani durante una sortita. Si è smesso di combattere da poco, fuma ancora il prato al lato del distributore di benzina ora sommerso dal tetto di metallo che gli si è afflosciato sopra. Andiamo verso Gaza insieme ad un corteo internazionale di ambulanze, con medici e medicinali, che il governo egiziano ha deciso di far passare soltanto ora. Sulla strada costiera, lì dove i tank israeliani l'hanno interrotta per spezzare in due la Striscia, mi imbatto in un minareto mozzato di netto, nella cupola bucata di una moschea, in vari edifici semidistrutti.

A Gaza cerco il quartiere di Jebalia, ex campo profughi e fucina di radicalismo. Altre distruzioni, ma certo meno che a Rafah. Ai margini di Jebalia trovo la moschea Taha, o più esattamente il suo minareto: il resto è stato pressato al suolo dalle bombe. Sul marciapiede antistante un centinaio di musulmani ha appena terminato di pregare. Chiedo all'imam, Yussuf Mohammed Shiada, perché è stata punita la sua moschea. "Vallo a sapere. Questa non è mai stata una moschea di Hamas, ma di Fatah. Io stesso sono di Fatah. Abbiamo deciso di ricostruire altrove la moschea, in modo che il minareto diventi un monumento. Proprio così, un monumento ai crimini d'Israele".

Israele si è macchiata di crimini di guerra? L'apparenza è quella, ma occorrerà investigare. Purché qualcuno lo faccia. E purché l'Europa ne tragga le conseguenze. Altrimenti sarà ancor più arduo di quanto non sia ora convincere i palestinesi a rompere il circolo crimine-impunità-reazione, cui anch'essi sono assidui.

A Rafah, in una zona di rovine, c'è un antro stipato di seggiole di plastica e di divani. L'uomo che le affitta (le seggiole per le veglie funebri, i divani per i matrimoni) e suo figlio sono guerrieri della Jihad islamica. Il ragazzo porta nella carne i segni del razzo israeliano che lo ha mirato mentre tornava da qualche operazione guerrigliera. Il padre racconta che da un mese non affitta più divani, solo seggiole. "Gli unici matrimoni che si celebrano a Rafah ora sono gli sposalizi tra gli shaid, i martiri, e Allah". I martiri che hanno sposato Allah ci sorridono dai manifesti che tappezzano le pareti, con bandoliere, mitra e tute militari. Terrroristi, potremmo dire. Purché si trovi un nome esatto anche ai metodi con cui guerreggia il governo di Ehud Olmert.

(19 gennaio 2009)

 

 

L'UNITA'

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2009-01-18

Prima notte senza missili Inizia il ritiro da Gaza

Prima notte senza missili e spari nella Striscia di Gaza. Dopo il

cessate-il-fuoco proclamato unilateralmente da Israele ha fatto seguito la sospensione delle ostilità anche da parte di Hamas. L'Esercito israeliano ha confermato che le proprie truppe hanno cominciato a ritirarsi, come era stato già riferito da testimoni oculari, ripiegando da Gaza città verso la recinzione che corre lungo la frontiera. "È tutto calmo, non ci sono state notizie di alcuna attività bellica per l'intera notte", ha ribadito un portavoce militare dello Stato ebraico.

Soltanto poco dopo l'alba gli abitanti delle aree costiere che si estendono a nord del capoluogo dell'enclave hanno denunciato bombardamenti navali, ma da parte israeliana non è stato ammesso alcun eventuale attacco. Il personale sanitario palestinese ha comunque approfittato della pausa nei combattimenti per ispezionare le zone che erano rimaste finora inaccessibili, e portarvi soccorso ai feriti; da sotto alle macerie degli edifici distrutti sono tra l'altro stati estratti nel complesso ulteriori 95 cadaveri, parecchi dei quali di bambini.

Domenica sera alla televisione locale è apparso Ismail Haniyeh, leader di Hamas nella Striscia e primo ministro dell'auto-proclamato governo locale, il quale ha salutato come una "grande vittoria" l'inizio del ritiro israeliano. "Allah ci ha concesso una grande vittoria, non riservata a un'unica fazione, o a un solo partito, o a una determinata area, ma al nostro intero popolo", ha esultato Haniyeh. "Abbiamo fermato l'aggressione, e il nemico non è riuscito a conseguire nessuno dei suoi obiettivi". Il gruppo radicale palestinese ha accettato di aderire alla tregua soltanto a condizione che le truppe dello Stato ebraico lascino Gaza entro una settimana.

Domenica in Egitto a Sharm il vertice per suggellare il cessate il fuoco deciso da Israele ma rifiutato da Hamas. Presenti, oltre al presidente egiziano Mubarak, grande mediatore tra i due fronti, il segretario dell'Onu Ban Ki Moon, i leader europei Sarkozy, Brown, Merkel, Berlusconi e Zapatero, i rappresentanti della Ue e della Lega Araba.

Berlusconi, ha annunciato la disponbilità dell'Italia di inviare carabinieri ai valichi della Striscia ed eventuali forze navali per contrastare il contrabbando. Berlusconi ha spiegato che il nostro Paese "vuole essere capofila per l'avvio di un Piano

Marshall a sostegno dell'economia palestinese". L'Italia è anche pronta ad offrire la sede siciliana di Erice per eventuali negoziati di pace in Medio Oriente. Lo ha ribadito il premier Silvio Berlusconi nella conferenza stampa congiunta oggi al vertice di Sharm el Sheick convocato dal presidente egiziano Hosni Mubarak sulla crisi di Gaza. L'Italia, è stato infatti il concetto espresso dal presidente del Consiglio, "è impegnata in tutte le attività che potranno portare ad un miglioramento delle situazione".

18 gennaio 2009

 

 

 

 

il SOLE 24 ORE

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2009-01-19

Gaza, seconda notte di calma. Israele comincia il ritiro dalla Striscia

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19 gennaio 2009

Soldati israeliani (AP Photo/Tara Todras-Whitehill)

Israele chiede una tregua stabile

ANALISI / Dal vertice di Sharm el-Sheik un triste risultato (di Ugo Tramballi)

RADIO24 / Il Papa: in Terra Santa c'è spazio per tutti

Berlusconi, disponibili a inviare i Carabinieri nella forza di pace a Gaza

La Striscia di Gaza ha vissuto una seconda notte di calma, dopo il cessate-il-fuoco proclamato unilateralmente da Israele e poi da Hamas. L'esercito israeliano ha cominciato un ritirodefinito "progressivo" dal territorio palestinese, devastato da 22 giorni di una pesante offensiva. Nessun combattimento o bombardamento è avvenuto da due giorni e in nottata ha regnato la calma nel terriotrio, dove oltre 1.300 palestinesi hanno perso la vita nelle tre settimane del conflitto. L'Egitto, che tenta di far approvare il suo piano per una tregua duratura sulla Striscia di Gaza, ha intanto invitato i responsabili israeliani e dei gruppi palestinesi a recarsi giovedì al Cairo per incontri separati. Non è ancora nota, però, la risposta delle due parti.

Nel frattempo, il leader di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, ha detto che l'operazione israeliana nella Striscia è stata un fallimento e che il suo gruppo ha riportato "una grande vittoria" contro lo Stato ebraico. In un discorso diffuso in serata dalla tv di Hamas a Gaza, Haniyeh ha detto che "il nemico non è riuscito a raggiungere gli obiettivi che si era prefissato". Haniyeh ha quindi definito "saggia e responsabile", la decisione annunciata da Hamas di sospendere le ostilità contro Israele per una settimana.

 

 

 

 

Olmert: pronti a lasciare Gaza

se la tregua sarà stabile

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18 gennaio 2009

Gaza, Hamas accetta la tregua ma chiede il ritiro di Israele entro una settimana

ANALISI / Dal vertice di Sharm el-Sheik un triste risultato (di Ugo Tramballi)

RADIO24 / Il Papa: in Terra Santa c'è spazio per tutti

Berlusconi, disponibili a inviare i Carabinieri nella forza di pace a Gaza

Israele uscirà dalla striscia di Gaza se il cessate il fuoco sarà stabile: lo ha detto oggi il premier dello Stato ebraico, Ehud Olmert, in presenza di sei leader europei giunti dal vertice di Sharm el–Sheikh. Olmert ha anche aggiunto che la ripresa del negoziato di pace con i palestinesi è una priorità di Israele e ha espresso rammarico per le vittime civili che - ha detto - non hanno mai rappresentato un nemico.

L'esercito israeliano avrebbe intanto iniziato un "ritiro progressivo" dalla Striscia di Gaza, secondo quanto ha annunciato un portavoce dell'esercito.

Intanto, il presidente egiziano Hosni Mubarak ha detto che l'Egitto ospiterà un altro vertice internazionale per coordinare la ricostruzione della Striscia di Gaza nel tentativo di arrivare ad una soluzione definitiva al conflitto tra Israele e Hamas. Mubarak lo ha annunciato al termine del summit di oggi, senza precisare la data del nuovo vertice. e ha detto che il suo Paese ospiterà questa conferenza per "raccogliere le risorse necessarie alla ricostruzione" dei territori palestinesi. Non ha però specificato chi vi parteciperà. Diversi Paesi, tra cui la Francia, la Spagna e l'Italia, hanno mostrato la loro disponibilità. Il premier italiano, Silvio Berlusconi, ha parlato di un "piano Marshall di cui l'Italia vuole essere capofila" per favorire la ricostruzione di Gaza.

I danni materiali causati dall'offensiva israeliana nella Striscia ammontano a 476 milioni di dollari, secondo una stima provvisoria realizzata dall'Ufficio centrale palestinese di statistica. Sempre secondo questo organismo, nei bombardamenti israeliani sono stati distrutte 4mila abitazioni private, 48 edifici governativi, 30 commissariati e 20 moschee sulle 795 che rimangono nella zona. Tra le infrastrutture da ricostruire anche strade, scuole e una parte delle centrali elettriche e di adduzione dell'acqua. Serviranno altri 500 milioni di dollari per sgomberare le macerie.

Anche la presidenza ceca di turno dell'Unione europea ha annunciato che organizzerà una conferenza dei paesi donatori per

rispondere ai bisogni umanitari della popolazione palestinese.

Invito a una pace duratura

Per il resto, il vertice internazionale di oggi a Sharm el-Sheikh si è concluso con i leader di Governo che hanno chiesto di accelerare gli sforzi per arrivare ad una "pace duratura" nella Striscia di Gaza e consolidare la tregua annunciata da Israele e da Hamas. Unanime è stata la pressione sullo Stato ebraico affinché ora ritiri le sue truppe dalla Striscia. "Siamo convinti che la pace non è impossibile e che abbiamo l'obbligo morale di ottenerla", ha detto il premier spagnolo Josè Luis Zapatero. "È necessario proseguire gli sforzi per consolidare il cessate il fuoco e garantire il ritiro delle truppe israeliane", ha detto il presidente egiziano, Hosni Mubarak. Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha ricordato che quella di oggi era la sua seconda visita in Medio Oriente da quando Israele ha laciato l'offensiva sulla Striscia e se nella prima occasione aveva notato che "si parlava solo con il linguaggio delle armi", adesso "è cominciato il nostro viaggio e dobbiamo accelerare gli sforzi". Sarkozy ha poi affermato che le truppe israeliane dovranno ritirarsi dalla Striscia di Gaza quando cesserà il lancio di razzi Qassam da parte di Hamas verso il territorio israeliano.

Un graduale ritiro delle forze israeliane è stato auspicato anche dal presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, che ha confermato ai giornalisti come durante il vertice tutti gli interventi dei leader siano andati nella direzione di auspicare un cessate il fuoco permanente, favorire il ritiro delle truppe israeliane da Gaza e aprire valichi per l'arrivo degli aiuti umanitari alla popolazone. In particolare, ha aggiunto Barlusconi, "tutti hanno auspicato che ci sia una riconciliazione all'interno dei palestinesi tra Hamas e l'Autoritá nazionale palestinese. Senza riconciliazione - ha avvertito - non ci può essere infatti un soggetto che si sieda al tavolo a parlare con gli israeliani a nome di tutti i palestinesi e portare a una soluzione il processo di pace in Medio Oriente".

 

 

 

 

 

Dal vertice di Sharm el-Sheik un triste risultato

di Ugo Tramballi

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18 gennaio 2009

 

Dieci capi di Stato e di Governo, il presidente di turno della Ue, il segretario generale Onu e quello della Lega Araba. Mancavano solo gli americani, i più importanti, per la casuale sovrapposizione di una guerra in Medio Oriente e una successione presidenziale a Washington. Tanta esposizione di potere globale per il solito problema: la soluzione dell'infinito conflitto tra israeliani e palestinesi attraverso la formula dei due Stati. Banale a dirsi, ma da 60 anni apparentemente impossibile da realizzarsi.

A Sharm el-Sheikh è stata invocata una tregua definitiva, premessa per l'ennesima ricostruzione di Gaza. Una parte in causa sul campo di battaglia che deve garantire la pace e favorire lo sviluppo economico della striscia, è stata individuata. Ovviamente Israele. E l'altra? Come il fantasma di Banquo c'era: aleggiava fastidiosa nella sala sontuosa del breve vertice sul Mar Rosso e in quella troppo piccola per ospitare la conferenza stampa di 12 personalità, contemporaneamente. Ma nessuno riusciva a dire "Hamas".

Gli israeliani sostengono di aver raggiunto i loro obiettivi della guerra. Ma Hamas non si è arreso, è ancora vivo: militarmente piegato ma politicamente presente, continua a pretendere che si adottino le sue condizioni. Questa è la fase nebbiosa di fine conflitto in cui è difficile capire chi vince e chi perde davvero. Da Annibale in poi, la Storia ha dimostrato che una grande vittoria militare col tempo può trasformarsi in una sconfitta politica, e viceversa. In attesa di capirlo, é il movimento islamico, decimato ma sopravvissuto alla guerra, che ora deve garantire la tregua da parte palestinese e che rischia di dover amministrare la ricostruzione di Gaza.

In America e in Europa Hamas è ufficialmente un'organizzazione terroristica. Fra gli arabi moderati è un pericolo. Ma anche senza desiderarlo, i 12 saggi di Sharm el-Sheik implicitamente e fatalmente hanno riconosciuto il movimento islamico. Potrebbe essere questo il triste risultato di un'altra inutile guerra mediorientale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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2009-01-14

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